ANTONIO GRAMSCI
Traducibilità
dei linguaggi scientifici e filosofici
§ 46[1].
Nel 1921 trattando di quistioni di organizzazione Vilici scrisse e disse
(press’a poco) cosi: non abbiamo saputo «tradurre» nelle lingue europee la
nostra lingua[2].
§ 47[3].
È da risolvere il problema: se la traducibilità reciproca dei vari
linguaggi filosofici e scientifici sia un elemento «critico» proprio di ogni
concezione del mondo o solamente proprio della filosofia della prassi (in modo
organico) e solo parzialmente appropriabile da altre filosofie. La
traducibilità presuppone che una data fase della civiltà ha una espressione
culturale «fondamentalmente» identica, anche se il linguaggio
è storicamente diverso, determinato dalla
particolare tradizione di ogni cultura nazionale e di ogni sistema filosofico,
dal predominio di una attività intellettuale o pratica ecc. Cosi è da vedere se
la traducibilità è possibile tra espressioni di fasi diverse di civiltà, in
quanto queste fasi sono momenti di sviluppo una dall’altra, e quindi si
integrano a vicenda, o se un’espressione data può essere tradotta coi termini
di una fase anteriore di una stessa civiltà, fase anteriore che però è più
comprensibile che non il linguaggio dato ecc. Pare si possa dire appunto che
solo nella filosofia della prassi la «traduzione» è organica e profonda, mentre
da altri punti di vista spesso è un semplice gioco di «schematismi» generici.
§ 48[4].
Giovanni Vailati e la traducibilità dei linguaggi scientifici.
Passo della Sacra Famiglia in cui si afferma che il linguaggio
politico francese del Proudhon corrisponda e possa tradursi nel linguaggio
della filosofia classica tedesca[5].
Questa affermazione ‹è› molto importante per comprendere alcuni aspetti della
filosofia della prassi e per trovare la soluzione di molte apparenti
contraddizioni dello sviluppo storico e per rispondere ad alcune superficiali
obbiezioni contro questa teoria storiografica (anche utile per combattere
alcuni astrattismi meccanicistici).
È da vedere se questo principio critico possa essere avvi|cinato o confuso
con affermazioni analoghe. Nel fascicolo di settembre-ottobre 1930 dei «Nuovi
Studi di Diritto, Economia e Politica», in una lettera aperta di Luigi Einaudi
a Rodolfo Benini (Se esista, storicamente, la pretesa repugnanza degli
economisti verso il concetto dello Stato produttore)[6] in una nota a p. 303 si legge: «Se io possedessi la meravigliosa facoltà
che in sommo grado aveva il compianto amico Vailati di tradurre una qualunque
teoria dal linguaggio geometrico in quello algebrico, da quello edonista in
quello della morale kantiana, dalla terminologia economica pura normativa in
quella applicata precettistica, potrei tentare di ritradurre la pagina dello
Spirito nella formalistica tua, ossia economistica classica. Sarebbe un
esercizio fecondo, simile a quelli di cui racconta Loria, da lui intrapresi in
gioventù, di esporre successivamente una data dimostrazione economica prima in
linguaggio di Adamo Smith e poi di Ricardo, e quindi di Marx, di Stuart-Mill e
di Cairnes. Ma sono esercizi che vanno, come faceva Loria, dopo fatti, riposti
nel cassetto. Giovano ad insegnare la umiltà ad ognuno di noi, quando per un
momento ci illudiamo di aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questa novità
poteva essere stata detta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero dei
vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel pensiero. Ma non
possono né devono impedire che ogni generazione usi quel linguaggio che meglio
si adatta al modo suo di pensare e d’intendere il mondo. Si riscrive la storia;
perché non si dovrebbe riscrivere la scienza economica, prima in termini di
costo di produzione e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di
equilibrio dinamico?» Lo spunto metodologico-critico dell’Einaudi è molto circoscritto
e si riferisce piuttosto che a linguaggi di culture nazionali, a linguaggi
particolari di personalità della scienza. L’Einaudi si riattacca alla corrente
rappresentata da alcuni pragmatisti italiani, dal Pareto, dal Prezzolini. Egli
si propone con la sua lettera fini critici e metodologici assai limitati: vuole
dare una piccola lezione a Ugo Spirito, | nel quale, molto spesso, la novità
delle idee, dei metodi, dell’impostazione dei problemi, è puramente e
semplicemente una quistione verbale. di terminologia, di un «gergo» personale o
di gruppo. Tuttavia è da vedere se questo non sia il primo grado del più vasto
e profondo problema che è implicito nell’affermazione della Sacra Famiglia.
Come due «scienziati» formatisi nel terreno di una stessa cultura fondamentale,
credono di sostenere «verità» diverse solo perché impiegano un diverso
linguaggio (e non è detto che tra loro non ci sia una differenza e che essa non
abbia il suo significato) scientifico, cosi due culture nazionali, espressioni
di civiltà fondamentalmente simili, credono di essere diverse, opposte,
antagonistiche, una superiore all’altra, perché impiegano linguaggi di
tradizione diversa, formatisi su attività caratteristiche e particolari a
ognuna di esse: linguaggio politico-giuridico in Francia, filosofico,
dottrinario, teorico in Germania. Per lo storico, in realtà, queste civiltà
sono traducibili reciprocamente, riducibili l’una all’altra. Questa
traducibilità non è «perfetta» certamente, in tutti i particolari, anche
importanti (ma quale lingua è esattamente traducibile in un’altra? quale
singola parola è traducibile esattamente in un’altra lingua?), ma lo è nel
«fondo» essenziale. È anche possibile che una sia realmente superiore
all’altra, ma quasi mai in ciò che i loro rappresentanti e i loro chierici
fanatici pretendono, e specialmente quasi mai nel loro complesso: il progresso
reale della civiltà avviene per la collaborazione di tutti i popoli, per
«spinte» nazionali, ma tali spinte quasi sempre riguardano determinate attività
culturali o gruppi di problemi.
La filosofia gentiliana è oggi quella che fa più quistioni di «parole», di
«terminologia», di «gergo», che dà per «creazioni» nuove [quelle che sono]
espressioni verbali nuove non sempre molto felici e adeguate. La nota dell’Einaudi
ha perciò esasperato Ugo Spirito che non riesce però a rispondere nulla di
conclusivo[7]. (Vedere tutta la polemica nella rivista citata).
§ 49[8].
L’osservazione contenuta nella Sacra Famiglia che il linguaggio politico
francese equivale al linguaggio della filosofia classica tedesca[9]
è stata espressa «poeticamente» dal Carducci nell’espressione: «decapitaro,
Emmanuel Kant, Iddio - Massimiliano Robespierre, il re». A proposito di questo riavvicinamento
carducciano tra la politica pratica di | M. Robespierre e il pensiero
speculativo di E. Kant, B. Croce registra una serie di «fonti» filologiche
molto interessanti, ma che per il Croce sono di portata puramente filologica e
culturale, senza alcun significato teorico o «speculativo». Il Carducci attinse
il motivo da Enrico Heine (terzo libro del Zur Geschichte der Religion und
Philosophie in Deutschland del 1834). Ma il riavvicinamento di Robespierre
a Kant non è originale dello Heine. Il Croce, che ha ricercato l’origine del
riavvicinamento, scrive di averne trovato un lontano cenno in una lettera del
21 luglio 1795 dello Hegel allo Schelling (contenuto in Briefe von und an
Hegel, Lipsia, 1887, I, 14-16), svolto poi nelle lezioni che lo stesso
Hegel tenne sulla storia della filosofia e sulla filosofia della storia. Nelle
prime lezioni di storia della filosofia, Hegel dice che «la filosofia del Kant,
del Fichte e dello Schelling contiene in forma di pensiero la rivoluzione»,
alla quale lo spirito negli ultimi tempi ha progredito in Germania, in una
grande epoca cioè della storia universale, a cui «solo due popoli hanno preso
parte, i Tedeschi e i Francesi, per opposti che siano tra loro, anzi appunto
perché opposti»; sicché, laddove il nuovo principio in Germania «ha fatto
irruzione come spirito e concetto» in Francia invece si è esplicato «come
realtà effettuale» (cfr Vorles. über die Gesch. d. Philos., 2 ‹ed.›,
Berlino, 1844, III, 485). Nelle lezioni di filosofia della storia, Hegel spiega
che il principio della volontà formale, della libertà astratta, secondo cui «la
semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà assolutamente
indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali», «rimase presso
i Tedeschi una tranquilla teoria[10],
ma i Francesi vollero eseguirlo praticamente» (Vorlesungen über die
Philosophie der Geschichte, 3 ‹ed.›, Berlino, 1848, pp. 531-32). (Questo
passo di Hegel è appunto, pare, parafrasato dalla Sacra Famiglia dove si
difende un’affermazione di Proudhon contro i Bauer[11],
o, se non la si difende, la si spiega secondo questo canone ermeneutico
hegeliano. Ma il passo di Hegel pare assai più importante come «fonte» del
pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che «i filosofi hanno spiegato
il mondo e si tratta ora di mutarlo»[12],
cioè che la filosofia deve diventare politica per inverarsi, | per continuare
ad essere filosofia, che la «tranquilla teoria» deve essere «eseguita
praticamente», deve farsi «realtà effettuale», come fonte dell’affermazione di
Engels che la filosofia classica tedesca ha come erede legittimo il «popolo»
tedesco e infine come elemento per la; teoria dell’unità di teoria e di pratica[13].
A. Ravà nel suo libro Introduzione allo studio della filosofia di Fichte
(Modena, Formiggini, 1909, pp, 6-8 n.) fa osservare al Croce che già nel 1791
il Baggesen in una lettera al Reinhold accostava le due rivoluzioni, che lo
scritto di Fichte del 1792 sulla rivoluzione francese è animato da questo senso
di affinità tra l’opera della filosofia e l’avvenimento politico e che nel 1794
lo Schaumann svolse particolarmente il paragone, notando che la rivoluzione
politica di Francia «fa sentire dall’esterno il bisogno di una
determinazione fondamentale dei diritti umani» e la riforma filosofica tedesca
«mostra dall’interno i mezzi e la via per cui e sulla quale solamente
questo bisogno può essere soddisfatto»; anzi che lo stesso paragone dava motivo
nel 1797 a una scrittura satirica contro la filosofia kantiana. Il Ravà conclude che il «paragone
era nell’aria».
Il paragone venne ripetuto moltissime volte nel corso dell’Ottocento (dal
Marx, per es., nella Critica della filosofia del diritto di Hegel) e
«dilatato» dallo Heine, In Italia qualche anno prima del Carducci, lo si
ritrova in una lettera di Bertrando Spaventa, dal titolo Paolottismo,
positivismo e razionalismo, pubblicata nella «Rivista bolognese» del maggio
1868 e ristampata negli Scritti filosofici (ed. Gentile, p. 301). Il
Croce conclude facendo delle riserve sul paragone in quanto «affermazione di un
rapporto logico e storico».«Perché se è vero che al Kant giusnaturalista
risponde assai bene nel campo dei fatti la rivoluzione francese è anche vero
che quel Kant appartiene alla filosofia del secolo decimottavo, che precesse e
informò quel moto politico; laddove il Kant che apre l’avvenire, il Kant della sintesi
a priori, è il primo anello di una nuova filosofia, la quale oltrepassa la
filosofia che s’incarnò nella rivoluzione francese»[14]. Si capisce questa riserva del Croce che però è impropria e incongruente,
poiché le stesse citazioni del Croce da Hegel mostrano che non del particolare
paragone di Kant | col Robespierre si tratta, ma di qualcosa di più esteso e
comprensivo, del moto politico francese nel suo complesso e della riforma
filosofica tedesca nel suo complesso. Che il Croce sia favorevole alle
«tranquille teorie» e non alle «realtà effettuali», che una riforma «in idea»
gli sembri la fondamentale e non quella in atto, si capisce: in tal senso la
filosofia tedesca ha influito in Italia nel periodo del Risorgimento, col
«moderatismo» liberale (nel senso più stretto di «libertà nazionale»), sebbene
nel De Sanctis si senta l’insofferenza di questa posizione «intellettualistica»
come appare dal suo passaggio alla «Sinistra» e da alcuni scritti, specialmente
Scienza e vita[15], e gli articoli sul verismo, ecc.
Tutta la quistione sarebbe da rivedere, ristudiando i riferimenti dati dal
Croce e dal Ravà, cercandone altri, per inquadrarli nella quistione che è
argomento della rubrica e cioè che due strutture fondamentalmente simili hanno
superstrutture «equivalenti» e reciprocamente traducibili, qualunque sia il
linguaggio particolare nazionale. Di questo fatto avevano coscienza i
contemporanei della rivoluzione francese e ciò è di sommo interesse. (Le note
del Croce sul paragone carducciano tra Robespierre e Kant sono pubblicate nella
II serie delle Conversazioni Critiche, pp. 292 sgg.).
Note
[2] Cfr nota 1 al Quaderno 7 (VII), § 2: “La data del 1921 si riferisce al III
Congresso dell’Internazionale comunista, dove fu votata una risoluzione sulle
questioni organizzative dei partiti comunisti, che l’anno seguente - al IV
Congresso dell’Internazionale - fu giudicata da Lenin «troppo russa». Cfr
Vladimir Il’ič Lenin, Opere compete, vol. XXXIII, trad. it. Editori
Riuniti, Roma 1967, pp. 395-96: «Nel 1921, al III Congresso, abbiamo votato una
risoluzione sulla struttura organizzativa dei Partiti comunisti, e sui metodi e
sul contenuto del loro lavoro. La risoluzione è eccellente, ma è quasi
interamente russa, cioè quasi interamente ispirata alle condizioni russe. Questo
è il suo lato buono, ma anche il suo lato cattivo. Cattivo, perché sono
convinto che quasi nessuno straniero potrà leggerla: ho riletto la risoluzione
ancora una volta, prima di dire questo. In primo luogo è troppo lunga: contiene
cinquanta o più paragrafi. Gli stranieri, di solito, non possono leggere cose
simili. In secondo luogo, anche se la leggeranno, nessuno degli stranieri la
comprenderà, appunto perché è troppo russa. Non perché sia scritta in russo,
essa è tradotta ottimamente in tutte le lingue, ma perché è interamente
permeata di spirito russo. In terzo luogo, se anche, in via di eccezione,
qualche straniero la comprenderà, non potrà applicarla […]. Ho l’impressione
che abbiamo commesso un grande errore con quella risoluzione, e cioè che ci siamo
noi stessi tagliata la strada verso ulteriori successi. Come ho già detto, la
risoluzione è stesa molto bene e sono disposto a mettere la firma sotto i suoi
cinquanta e più paragrafi. Ma noi non abbiamo capito come si deve mettere la
nostra esperienza russa alla portata degli stranieri. Tutto ciò che dice la
risoluzione, è rimasta lettera morta. Se non comprenderemo questo, non potremo
avanzare oltre».”
[4] Testo C: è utilizzato un testo A del Quaderno 4 (XIII), § 42: Giovanni
Vailati e il linguaggio scientifico.
[5] Cfr nota 31 al Quaderno 1 (XVI), § 44: “Questo riferimento alla Sacra
famiglia, nel senso indicato nel testo, ricorre frequentemente nei Quaderni
e si trova anche in una lettera di Gramsci del 30 maggio 1932 (cfr LC, 629).
Nella traduzione francese citata della Sacra famiglia, che Gramsci aveva
presente, il passo corrispondente è a p. 67 del tomo II delle Œuvres
philosophiques. Per la traduzione italiana cfr Friedrich Engels - Karl
Marx, La sacra famiglia, a cura di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma
1967, p. 47: «Se il signor Edgar paragona per un momento la eguaglianza
francese con la autocoscienza tedesca, troverà che il secondo principio esprime
in tedesco, cioè nel pensiero astratto, ciò che il primo dice in
francese, cioè nella lingua della politica e del pensiero intuitivo».”; cfr
anche Quaderno 1 (XVI) § 151; Quaderno 3 (XX) § 48; Quaderno 4 (XIII) § 3.
[6] Cfr nota 2 al Quaderno 4 (XIII), § 42: “Cfr Luigi Einaudi, Se esista,
storicamente, la pretesa ripugnanza degli economisti verso il concetto dello
Stato produttore (Lettera aperta a R. Benini), in «Nuovi studi di diritto,
economia e politica», settembre-ottobre 1930 (vol. III, fasc. V), pp. 302-14;
questo articolo di Einaudi è seguito, nello stesso fascicolo della rivista, da
una risposta di Rodolfo Benini, Coesione e solidarietà (pp. 315-20), e
da un articolo di Ugo Spirito, La storia della economia e il concetto di
Stato (pp. 321-24).
[7] Cfr nota 4 al Quaderno 4 (XIII), § 42: “Cfr Spirito, La storia della
economia e il concetto di Stato cit.”.
[8] Testo C: è utilizzato un testo A del Quaderno 8 (XXVIII), § 208: Traducibilità
reciproca delle culture nazionali.
[11] Cfr nota 4 al Quaderno 8 (XXVIII), § 208: “Si tratta dello stesso
riferimento al passo della Sacra Famiglia ricordato all’inizio del
paragrafo sull’equivalenza tra politica francese e filosofia tedesca.”.
[12] Cfr nota 5 al Quaderno 8 (XXVIII), § 208: “È la XI tesi su Feuerbach;
nella traduzione di Gramsci del Quaderno 7 (VII), p. 3: «I filosofi hanno solo
interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di mutarlo».”.
[13] Cfr nota 2 al Quaderno 4 (XIII), § 56: “È qui citata a memoria la nota
definizione engelsiana del movimento operaio tedesco come «erede della
filosofia classica tedesca»: cfr Friedrich Engels, Ludovico Feuerbach e il
punto d’approdo della filosofia classica tedesca, in Marx-Engels, Opere
scelte cit. p. 1147.”.
[14] Vale fino a questo punto l’avvertenza della nota 2 al Quaderno 8 (XXVIII),
§ 208: “Salvo l’osservazione finale e l’inciso fra parentesi, in cui si
richiamano la Sacra Famiglia e le Tesi su Feuerbach di Marx, il
resto del paragrafo, con i relativi riferimenti bibliografici, è ripreso dal
testo citato di Croce (Conversazioni critiche, serie II cit., pp.
292-294). Gli stessi temi sono accennati da Gramsci anche nella lettera a Tania
del 30 maggio 1932.”.
[15] Per il discorso desanctisiano La scienza e la vita cfr Quaderno 7
(VII), § 31, e Quaderno 9 (XIV), § 42.
Quaderno 11 (XVIII), §§46-49, pp.
1468-73
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